Dopo i giorni di proteste e fermento dell’opinione pubblica che hanno seguito l’uccisione di George Floyd a Minneapolis l’argomento razzismo e empowerment della comunità afro-americana e della black culture in generale sta svanendo lentamente dai nostri feed e dai dibattiti di personaggi di spicco e brand del sistema moda.

I marchi, soprattutto quelli del mondo occidentale, si sono schierati apertamente a supporto del movimento Black Lives Matter, creando una mobilitazione mediatica che non ha avuto precedenti dalla nascita dei social e della comunicazione virtuale.

Tra gli interventi più memorabili c’è il post di Marc Jacobs, che ha trasformato la foto dell’insegna del suo flagship con il logo cancellato e rimpiazzato dai nomi di Floyd e Sandra Bland in un manifesto sul valore della vita umana, e il lancio del progetto Gucci Equilibrium, destinato ad attività di formazione e impegno su temi sociali e ambientali per gli adulti di domani.

Business of Fashion e Vogue America hanno indetto una call to action pubblicando liste di brand di imprenditori afroamericani e di colore da supportare, seguiti a ruota dalle testate di moda più importanti d’Europa, ma la scossa più simbolica al sistema moda per come lo conosciamo arriva con le scuse di Anna Wintour, direttrice di Vogue US da 32 anni, inviate via mail ai suoi sottoposti.

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Nella lettera, trapelata pubblicamente il 9 giugno dal sito di gossip Page Six, l’editor in chief più temuta d’America ammette di non aver dato abbastanza spazio a editor, fotografi e designer neri, creando una profonda ondata di riflessione nel mondo dell’editoria.

In oltre 126 anni di storia del magazine la prima copertina di Vogue US firmata da un fotografo di colore risale solo al 2018, quando per intercessione di Beyonce il ventitreenne Tyler Mitchell firma la prima pagina del September Issue che la vede protagonista.

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Fu grazie ad un intervento di analoga portata che nel 1988 Naomi Campbell apparve per la prima volta sulla cover di Vogue France. Yves Saint Laurent minacciò di annullare gli spazi pubblicitari acquistati dalla sua maison nel caso in cui la redazione si fosse rifiutata di pubblicarla in copertina. 

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Sempre a Monsieur Yves dobbiamo le prime modelle dalla pelle nera in passerella, Mouna, Iman e Katoucha, diventate le icone della moda degli anni ’80.

Una sorte non molto diversa da quella di modelle e fotografi è toccata a stilisti e couturier di colore del passato, tra cui spicca la storia della newyorkese e afroamericana Ann Lowe, creatrice dell’abito da sposa di Jackie Kennedy, che non venne mai pubblicamente menzionata nonostante la copertura mediatica dell’evento.

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Se guardiamo l’odierno olimpo delle griffes Virgil Abloh e Olivier Roustaign, rispettivamente direttori artistici di Louis Vuitton e Balmain, rappresentano un caso isolato in quello che è un mondo storicamente predominato da designer bianchi.

Ma segnali di cambiamenti in atto nel sistema sono già nell’aria. Il 9 giugno Hearst ha nominato Samira Nasr direttrice di Harper’s Bazaar, prima donna nera in oltre 153 anni di storia della testata.

Il dibattito sul rapporto tra moda e black culture va tenuto vivo ora più che mai ed ampliato partendo dalle origini, per includere punti di vista che fin’ora non hanno avuto spazio o sono stati coinvolti solo in caso di appropriazione culturale indebita.

Tra blog ed archivi che operano in questa direzione consiglio Fashioning The Self, che raccoglie immagini e riferimenti alla storia dell’arte e del costume, Fashion and Race, un database che mira ad integrare e “decolonizzare” la narrativa legata alla storia della moda, e il podcast Dressed sull’abbigliamento visto da molteplici punti di vista.

  1. Fashioning the self
  2. Fashion and Race 
  3. IHEART / PODCAST