Dalla pandemia globale alle catastrofi naturali, dal movimento attivista “Black Lives Matter” alle elezioni americane: un anno decisamente intenso il 2020. Senza dubbio un anno che ha sconvolto le nostre vite, un anno che sarà difficile da cancellare dalle nostre memorie.
Alle soglie del 2021, vogliamo fare il punto della situazione. Cosa è successo quest’anno? I fenomeni che hanno cambiato il sistema moda e quelli che plasmeranno la moda del prossimo futuro.
NUOVI MECCANISMI

Doveva arrivare il Covid-19 per mettere in discussione le roccaforti del fashion system? A quanto pare sì. La classica concezione stagionale delle collezioni ed i calendari delle sfilate hanno subito, inevitabilmente, un brusco cambiamento durante quest’anno. Già a febbraio, la Milano Fashion Week ha proposto la campagna “China we are with you”. Questa iniziativa ha permesso ai compratori, giornalisti e addetti del settore cinesi che non potevano essere presenti di assistere via web a tutte le sfilate, di vedere interviste, backstage e anche interagire.
Quando l’ondata di coronavirus si è spostata dalla Cina in Italia per poi diventare un’emergenza sanitaria mondiale, si è cominciato a riflettere sulle misure necessarie al sistema moda per superare la crisi.
È arrivato in soccorso il digitale.
Durante il lockdown la vita “sociale” si è spostata completamente sui social.
Abbiamo assistito a shooting su Facetime, iconico quello di Bella Hadid che ha posato da casa per la campagna estiva di Jacquemus. Mentre a luglio si è tenuta la prima Milano Digital Fashion Week, una manifestazione che, per la prima volta nella sua storia, ha presentato un calendario online di appuntamenti tra reale e digitale. Tutto questo alla ricerca di una “nuova normalità”. Ed in questa nuova normalità la necessità di nuovi format per le sfilate. Numerosi brand hanno scelto “avatar” al posto di modelli/e sulle passerelle. L’adozione di questi elementi non è nuovo per le aziende di moda di fascia alta. Tuttavia, il distanziamento sociale e la digitalizzazione che ne è derivata ne hanno incrementato l’utilizzo. GCDS ha proposto avatar protagonisti di un mondo cibernetico. Mentre Christian Louboutin ha scelto di essere ritratto come il personaggio di un videogame.

MSGM, Dolce&Gabbana, Prada, Alberta Ferretti per citare alcuni tra i 41 brand protagonisti che hanno deciso di aderire all’edizione digitale della fashion week. Ma non sono mancati i grandi assenti: Fendi, Versace, Giorgio Armani, Gucci. Proprio Armani e Gucci hanno dichiarato la necessità di un calendario più snello e una riduzione delle collezioni, con implicazioni di sostenibilità. Il primo a parlare, in una lettera aperta al quotidiano americano Wwd datata 3 aprile, è stato Giorgio Armani insistendo sul dover togliere il superfluo e ridefinire i tempi. Alessandro Michele di Gucci ha annunciato il suo piano per andare fuori stagione e tagliare le presentazioni a due volte l’anno.
Pensieri individuali che convergono nella medesima direzione: per riparare la macchina, che è rotta e arranca, bisogna fare di meno e meglio. Come? Riallineando le stagioni commerciali a quelle reali, allungando la vita dei prodotti in boutique con una rotazione meno frenetica, riducendo i periodi di saldo. C’è bisogno che gli show diminuiscano, perché la sfilata come strumento di pura comunicazione ha perso mordente. Se i presupposti erano questi, c’è da dire che Giorgio Armani e Gucci non hanno affatto deluso le nostre aspettative. Giorgio Armani ha sfilato in televisione in prima serata di sabato sera. Se non è una rivoluzione, ci si avvicina parecchio. Il suo è certamente un nome che tutti conoscono e ammirano e seguono, un personaggio in questo senso nazional-popolare, ma la sua idea di stile, così essenziale, così lontana dalla volgarità, non è per nulla generalista.
Alessandro Michele, direttore creativo di Gucci, già negli ultimi anni, ha iniziato un percorso di cambiamento del brand. Gucci è uscito dal calendario tradizionale della moda e dai suoi sistemi. Il brand ha presentato la nuova collezione con un festival lungo sette giorni, il Gucci Fest, e una mini serie diretta da Gus Van Sant, intitolata “Ouverture of something that never ended”. Slegata anche dalla stagionalità che vorrebbe mostrati i capi e gli accessori per la primavera estate 2021, il suo live show è frutto di una scelta fuori dal coro: “riuscire a scorgere, nell’oscurità, la presenza gioiosa delle lucciole.”
Dries Van Noten guida un drappello che include Marine Serre e Tory Burch e invoca un futuro più sostenibile: sono i marchi più piccoli, compatti nel reclamare rilevanza.
BLACK LIVES MATTER

Il 2020 è l’anno della consapevolezza.
È l’anno zero da cui ricominciare e ripartire per costruire una società migliore.
È l’anno in cui non si possono più ignorare o rimandare battaglie importanti e che determineranno la prossima società del futuro.
Dagli Stati Uniti, in piena emergenza Covid e campagna elettorale per le elezioni presidenziali, è stato urlato un messaggio chiaro e inequivocabile: BLACK LIVES MATTER.
Il mondo intero è stato scosso dal video della morte di George Floyd che ha generato proteste, anche violente, in tutte le città americane e non solo.
George Floyd non è il primo afroamericano ucciso così brutalmente – il numero di cittadini americani neri uccisi per il colore della pelle, sì per il colore della pelle, dai poliziotti è infinito, ma in questo caso è successo qualcosa di diverso. L’orrore è stato filmato da uno smartphone e ha attraversato i social svegliando le coscienze. È stato impossibile restare a casa, tutti sono scesi per strada, tutti hanno urlato, alzato il pugno, lottato e ancora oggi ci sono persone che portavano avanti la battaglia per l’affermazione dei diritti della comunità nera.
L’eco delle proteste americane è giunta dovunque e il dibattito si è spostato su più livelli, coinvolgendo anche il fashion system.
La moda non è solo l’abito che scegliamo di indossare ma racconta la società contemporanea, e si mischia con la politica, l’economia e si fa portatrice di valori e messaggi sociali.
Negli ultimi anni il sistema moda si è fatto portavoce di diverse battaglie: dalla lotta alla anoressia alla lotta per i diritti dei disabili, dalla scelta di modelle che rompono la visione del modello di donna perfetta inarrivabile e fuori dalla realtà, all’affermazione del concetto che ogni essere umano è bello, attraverso l’esaltazione del difetto che viene visto come unicità e peculiarità di ogni singolo individuo. La moda si è schierata con decisione nella battaglia all’inclusione dei valori LGBTQI.
Oggi la moda ha una nuova sfida: schierarsi accanto alla comunità nera. In prima linea, la scorsa estate Beyoncè ha fatto sentire la sua voce con il documentario Black is King, una testimonianza importante con la quale Queen Bey fa un’esaltazione della bellezza e della cultura nera.
La moda ha le sue colpe. Quali? Analizziamo i concetti di diversità e inclusività per capire a che punto siamo.
Abbiamo detto che negli ultimi anni la fashion industry si è aperta alle diversità – razze, gender, disabilità – scegliendo testimonial ben specifici per veicolare messaggi sociali importanti. Dal punto di vista della “razza” si registrano dati positivi: sempre più brand hanno scelto come testimonial per le sfilate o le proprie campagne modelle nere, per la Fall2018 la modella Anok Yai è stata la prima modella nera ad aprire una sfilata di Prada. Ma a che punto siamo dal punto di vista dell’inclusività? Ovvero, cosa vuol dire essere neri e lavorare nella moda? Quanti neri ricoprono un ruolo di rilievo nel settore moda? All’ultima New York Fashion Week su 80 eventi in calendario, c’erano solo 9 designer neri – per approfondire leggi: Moda e Black culture: a che punto siamo?
Il 2020 rappresenta, a nostro avviso, un anno di cambiamento: il messaggio urlato per le strade americane ancora riecheggia e non è rimasto inascoltato.
Qualcosa è cambiato, si è capito che non si può più ignorare la comunità nera e il percorso per una società in cui le diversità siano rispettate e incluse è iniziato. La strada da percorrere è lunga e la moda giocherà un ruolo importante per arrivare a poter dire ALL HUMAN LIVES MATTER.

WHAT'S NEXT?

Nel 2019, il survivalismo era considerato un trend; oggi, è uno stile di vita. Abbiamo dovuto indossare mascherine per contrastare la diffusione del covid-19 e l’industria della moda si è presto orientata anche su questa nuova categoria. Le mascherine per il viso si sono evolute notevolmente durante la pandemia. Hanno iniziato come un elemento necessario e sono rapidamente diventate parte della nostra vita quotidiana. I marchi di moda hanno anche iniziato a reinventarne l’aspetto rendendole una sorta di accessorio. Fattore sintomatico di come siano cambiate in questi mesi anche le necessità delle persone e, di conseguenza, l’evoluzione delle richieste.
Il periodo post coronavirus è stato caratterizzato da acquisti sempre più mirati alla praticità. Lo smart working diffuso, l’impossibilità di muoversi, ha fatto sì che le persone cercassero un abbigliamento decisamente più pratico e meno ricercato. Molto interessante anche la nuova tendenza degli abiti “adattabili”. Si tratta di capi di abbigliamento quasi “futuristici” i cui tessuti sono in grado di adeguarsi ai cambiamenti del corpo. Si tratta di soluzioni ancora di nicchia ma che, in un prossimo futuro dove l’esigenza di ottimizzare costi e uso dei materiali diventerà davvero impellente, potrebbero rappresentare una costante.
Ma ci chiediamo, dopo quest’anno, esisteranno ancora i cicli dei trend e quindi delle stagioni?

L’aspettativa per i marchi di moda era quella di produrre quattro collezioni ogni anno (primavera / estate, pre-autunno, autunno / inverno e resort), escluse le capsule collection aggiuntive o i progetti di collaborazione. Anche prima della pandemia, i difetti di questa struttura erano chiaramente visibili. Il fast fashion correva per ricreare le tendenze delle collezioni di lusso producendo capi a una velocità fulminea e venduti nella stessa maniera. Tutto questo, spesso, in condizioni di lavoro disumane.
Già in passato abbiamo parlato di brand tipo Arjè che rifiutano il concetto di stagionalità e fashion week, ma parlano di capitoli in cui realizzano pochi pezzi nuovi che si aggiungono a quelli esistenti. Nell’era post-covid, il consumatore vuole acquistare meno capi di abbigliamento, ma pretende prodotti moda di qualità, di provenienza tracciata, sostenibili dal punto di vista etico e ambientale, che durino più stagioni nell’armadio. Una delle azioni più efficace da parte del consumatore potrebbe essere quella di non comprare nuovi capi quando non necessario. Infatti il vintage, il second hand e l’usato sono alternative valide ed eco-friendly.

A tal proposito, in occasione dei “Green carpet fashion awards”, Miu Miu ha dato vita ad una collezione di pezzi vintage riciclati. Si chiama “Upcycled” ed è la nuova capsule collection composta da 80 pezzi unici, che parla della sempre più crescente attenzione della moda verso un approccio più green. Miuccia Prada sta cercando di attuare dei cambiamenti reali per quanto riguarda il suo brand.
Su questa scia ci ricolleghiamo alla lettera di Giorgio Armani: la moda ha bisogno di diventare “slow” perché così come è strutturata non è più sostenibile. Per citarlo: ”Ho sempre creduto in una idea di eleganza senza tempo, nella realizzazione di capi d’abbigliamento che suggeriscano un unico modo di acquistarli: che durino nel tempo. Per lo stesso motivo trovo assurdo che durante il pieno inverno, in boutique, ci siano i vestiti di lino e durante l’estate i cappotti di alpaca, questo per il semplice motivo che il desiderio d’acquisto debba essere soddisfatto nell’immediato.”

La sostenibilità è un cambiamento radicale e permanente, non un trend stagionale, ma un modo di pensare ed agire su scala globale. Scegliere la moda sostenibile è l’unica strada possibile per salvaguardare l’ambiente, i diritti dei lavoratori e le scelte dei consumatori.
Interessante per il futuro della moda è il progetto Slow Factory Foundation che si occupa di gestire iniziative di istruzione, design e comunità nel settore della moda dal 2013. Collaborando con partner tra cui marchi globali, organizzazioni non profit e università, si impegna a migliorare l’alfabetizzazione sulla sostenibilità nella moda.
In questo particolare momento storico la moda sta imparando e deve continuare a ridurre ogni giorno di più il proprio impatto sull’ambiente. Il settore del fashion, infatti, è il più inquinante al mondo e è necessario fare qualcosa per fermare tutto ciò. Per dare vita a questa cambiamento strutturale del fashion system, crediamo che la sostenibilità sia un driver imprescindibile insieme alla trasformazione digitale e alle nuove tecnologie. Dobbiamo guardare a quest’anno passato come a un’opportunità per redimersi, per accelerare il cambiamento, fare mea culpa, “per rallentare tutto, per riallineare tutto, per disegnare un orizzonte più autentico e vero“. Un’occasione per migliorarsi e fermarsi, mettendo da parte competizione insensata e spettacolarizzazione fuori luogo, per chiedersi se davvero ormai la moda si sia ridotta ad essere solo un gioco di comunicazione e niente di più, una nuvola di fumo adatta solo a coprire “idee blande”, poco originali e inconsistenti.
