Il bagliore del sole della riviera francese e la poliedrica malinconia dei campi di lavanda del sud della Francia hanno aiutato Simon Porte Jacquemus a conquistare il mondo, almeno per la durata di un momento, che nella moda, tende ad essere sempre più effimero della soggettiva temporalità che gli si attribuisce.
L’11 gennaio dell’anno appena iniziato, Jacquemus ha utilizzato l’account Instagram (@Jacquemus), diviso tra profilo personale e professionale, dove il giovane designer promuove l’omonimo brand, per condividere gli scatti della nuova sede della maison di Parigi. Tra le congratulazioni e i commenti piacevolmente stupiti, l’account Instagram Say Hi To_ (sayhito_), che si autodefinisce una piattaforma curatoriale di design contemporaneo, ha accusato il designer di plagio. Di fatto, la scrivania di metallo lucido, che appare tra gli scatti sul profilo di Jacquemus, è pressoché identica al lavoro dei due architetti tedeschi Hans e Wassily Luckhardt.
La denuncia di Say Hi To_ ha velocemente scatenato una bufera sui social, dove il pubblico digitale condanna Simon Porte per l’inequivocabile plagio. Non meno critica è la stampa francese, che sembra aver ripudiato l’Enfant Prodige ben tempo addietro, proprio a causa delle numerose accuse di plagio che contraddistinguono la carriera di Jacquemus anche nella moda.
A seguito della polemica social scatenata dal lampante plagio, Simon Porte non ha tardato a servirsi delle stories di Instagram per scusarsi pubblicamente e dichiarare la benignità delle sue intenzioni; omaggiare i due architetti tedeschi.
A fronte della giustificazione del giovane designer, una domanda sorge spontanea: quanto è labile la linea di confine tra omaggio e plagio? Quando l’omaggio cessa di essere considerato tale e diviene plagio?
Seppur, a primo acchito, possa sembrare una problematica concernente esclusivamente Simon Porte Jacquemus, la questione è bensì più ampia e radicata intrinsecamente nell’intero universo moda. D’altronde, la moda (e i trend) sembrano essere caratterizzati dalla stessa antropomorfica ciclicità del tempo: tutto si ripete. A fronte di tale consapevolezza sembra consueto e del tutto lecito che il concetto di “omaggio” sia così popolare e copiosamente invocato.

Nella moda, ci sono numerosi esempi di omaggio riusciti con successo. Uno tra tanti, di anni recenti, potrebbe essere la collezione Primavera- Estate 2018 di Versace, dedicata interamente al defunto Gianni, da parte di sua sorella. Una sfilata rimasta sulla bocca di tutti proprio per il sentito tributo che rivisitava e ricontestualizzava alcuni dei pattern e capi che avevano portato Gianni all’olimpo dei grandi nomi della moda, e per la presenza delle iconiche top model per eccellenza degli anni ’90.
È sicuramente pratica comune omaggiare la storia del proprio brand attraverso la ricontestualizzazione di essa. Basti pensare alla recentissima logomania recuperata direttamente dalla fine degli anni ’80 e i primi anni ’90, e di come questa, in breve tempo, si sia diffusa tra i grandi colossi della moda (Gucci, Balenciaga, Fendi, Louis Vuitton). Entrambe le forme, per quanto diverse, sono autoreferenziali. Proprio
perché nel mondo post-moderno l’interpretazione personale è altamente apprezzata, nel contesto dell’autoreferenzialità, omaggio e plagio, per quanto simili, sono due fenomeni distinti. L’omaggio autoreferenziale, per l’appunto, viene raramente messo in discussione (per quanto discutibile possa essere l’apporto creativo).
Ben diverso è il discorso di omaggio intertestuale, come può essere considerata la collezione Primavera-Estate 1995 di Alexander McQueen dal titolo The Birds. La passione dell’enfant terrible per i volatili e la sua affinità con l’orrore, lo hanno spinto ad omaggiare direttamente la pellicola The Birds di Alfred Hitchcock. Di certo, un esempio di omaggio egregiamente riuscito e che tantomeno mette in discussione l’apporto creativo del designer.
Il confine tra omaggio e plagio, però, tende ad essere più sottile e, se vogliamo, soggettivo quando le maggiori case di moda ripresentano sulla passerella capi quasi identici ad abiti già presentati, la cui proprietà artistica è attribuibile a grandi nomi del passato.
Tra i più “citati” rientrano sicuramente Roberto Capucci e Madame Grés; il primo, prominente stilista italiano del secondo dopoguerra, e la seconda una delle più rinomate couturier francesi. Fin dall’inizio del 21esimo secolo, numerosi capi dei due designer sono stati ripresentati sulle passerelle di tutto il mondo, leggermente camuffati (e non così tanto bene…) quanto basta per apparire “diversi”. Valentino, Givenchy, Gucci, Dior, Burberry… sono solo alcuni dei nomi delle case di moda che negli ultimi anni hanno debuttato una “rivisitazione” di almeno uno degli abiti di Capucci e Grés.

Per quanto sia innegabile l’essenza ciclica della moda, pare che molti confondano la rivisitazione dei trend con la ripresentazione dello stesso e identico capo. Pur potendo invocare l’importanza e la necessità di omaggiare la storia che ci ha resi ciò che siamo come giustificazione, ci sono casi in cui il plagio è innegabile. Edda Gimnes è una designer norvegese emergente che aveva presentato ad un membro del team Moschino la sua collezione Primavera-Estate del 2016 e 2017, caratterizzata dal disegno a mano sul tessuto. Qualche tempo dopo quell’incontro, una collezione contraddistinta da un tratto sui tessuti terribilmente simile, e firmata da Jeremy Scott per Moschino, viene presentata alla Milano Fashion Week. La giovane designer racconta prontamente l’accaduto sulle pagine social, esternando il suo dolore e delusione di fronte al poco velato plagio.
Simili sono le storie di molteplici designer emergenti, brand indie e studenti di moda. Proprio come il caso dell’artista Tra My Nguyen, all’epoca laureanda presso la Berlin University of the Arts. Proprio durante una presentazione artistica per i laureandi, un “reclutatore” di Balenciaga mostra interesse per il lavoro della giovane artista, chiedendole perfino il portfolio e immagini ulteriori. Nonostante il ricco interesse dimostrato, i contatti tra Tra My Nguyen e i rappresentanti del brand si interrompono di colpo e, successivamente, la giovane artista trova il proprio lavoro replicato sull’account Instagram di Balenciaga.
Se così come dicono, il capitalismo genera davvero innovazione, sembra più che lecito domandarsi il perché il potere sembra essere più verticale che mai, contraddistinto dallo spazio in cima che si riduce man mano e da opportunità sempre minori per coloro alla base. Citando Apple, Netflix, Amazon e Google come egregi esempi del modo in cui l’innovazione prospera sotto il capitalismo non si fa altro che inneggiare un’innovazione fortemente oligopolistica. E, soprattutto, così come decenni di storia della moda dimostrano, è un’innovazione basata sulla replica e sullo sfruttamento.
Per l’appunto, la moda non è estranea a forme di sfruttamento che nella maggior parte dei casi sfociano in appropriazione e depredazione culturale. Sotto questo punto di vista, il mondo della moda sembra perpetuare il colonialismo europeo, attraverso il dominio economico sul lavoro e il commercio dei paesi del terzo mondo a cui commissionano manodopera a basso costo. Un esempio dolorosamente recente sono le proteste dei lavoratori in Bangladesh a seguito dello scoppio della pandemia. Con la chiusura dei negozi di tutto il mondo, i più grandi produttori nel settore dell’abbigliamento hanno cancellato i contratti con la manodopera e ciò ha dato inizio ad una serie di proteste che incitavano questi stessi produttori a pagare (#PayUp). La forte dipendenza del terzo mondo dal primo mondo appare palese e di conseguenza innegabile. Nonostante la colonizzazione sia finita da tempo, i suoi effetti vengono tuttavia promulgati.
E nella moda, il rapporto appare ancor più complesso. Come è risaputo, il feticismo per le culture straniere va quasi di pari passo con la nascita stessa della moda. Molte volte i grandi brand di moda europei hanno presentato collezioni ispirate o contaminati da culture straniere. La problematica sorge perché nella ideazione e produzione di esse raramente vengono coinvolti individui appartenenti a quella stessa cultura e, di conseguenza, in possesso di una profonda conoscenza e rispetto a riguardo. Proprio come una depredazione imperialistica dei giorni moderni, i grandi marchi della moda europea si appropriano delle tecniche d’artigianato e dei capi tradizionali di culture straniere senza alcun riguardo o rispetto per esse, per ricontestualizzare così il tutto, riducendo la cultura in questione a un mero feticcio. Di esempi ce ne sono numerosi e, anche in questi casi, viene comunemente invocato l’omaggio. Ma se per definizione, l’omaggio è professione di ossequio o rispetto, nella maggior parte dei casi ambigui si sente chiaramente la mancanza di entrambi.
